Roberto Cipriani (Art for the masses) 2024
Ho chiesto a Virgilio Rospigliosi di scegliere alcune sue opere che potessero prestarsi meglio ad una trattazione sociologica. Me ne ha segnalate cinque: tre sono intitolate “Galleria d’arte”, le altre due invece hanno la dicitura “Era Caravaggio” ed “Era Van Gogh”. Immagino che l’espressione “Galleria d’arte” si riferisca a tutta una serie di opere contestualizzate al di fuori dei musei ufficiali, per cui ogni luogo pubblico potrebbe prestarsi ad essere appunto una “Galleria d’arte”, raggiungendo così lo scopo prefissato di “Art For The Masses” (AFTM), ovvero arte per tutte e tutti (come evidenziato dalla scritta abbreviata apposta sulle formelle in legno dipinte da Rospigliosi). Di fatto, tutte le opere di Rospigliosi sono altrettante provocazioni, nel senso che suscitano una forte attenzione da parte di chi le guarda e s’interroga sul loro significato. Già l’operazione stessa di presentare un’opera d’arte intrigante, suscitatrice di emozioni ed interrogativi allo stesso tempo, è di per sé un’azione intellettuale di prim’ordine, che merita tutta la considerazione da parte del sociologo, coinvolto nell’interpretazione di quanto l’artista propone e presumibilmente il pubblico percepisce. Insomma, le produzioni artistiche di Rospigliosi non solo non passano inosservate ma inducono ad andare oltre lo sguardo superficiale di un’occhiata rapida e senza alcuna forma di epoché filosofica ed artistica, come arresto di una valutazione superficiale per soffermarsi più a lungo, interrogandosi sul messaggio trasmesso e sulle transizioni-tra(n)sfigurazioni messe in atto. Sì, perché di questo si tratta: passare dal classico al contemporaneo o, meglio, dal contemporaneo ispirato al classico per poi passare ancora una volta a quest’ultimo per ri-significarlo in un altro modo, rendendolo perciò più fruibile da un vasto pubblico, non più solo elitario. Il transito avviene grazie all’espediente inventato da Rospigliosi, che mette a frutto tutto quello che ha appreso dai grandi maestri della pittura, apporta del suo con una venatura ironica e drammatica congiuntamente, aggiunge un’icona tipica della comunicazione digitale quale il QR code e porta per la prima volta o riconduce le masse nei musei e/o nei luoghi di frequentazione quotidiana, al fine di consentire una ri-lettura del tutto in una nuova prospettiva. In pratica, lo spunto-suggerimento predisposto dall’artista contemporaneo è un pre-testo che avvicina le persone all’arte e poi la trasmuta in qualcosa d’altro, ma non per questo meno valido esteticamente e culturalmente. Siamo abituati agli imbrattamenti dei capolavori dell’arte pittorica (ma non solo), però la poetica di Rospigliosi ha qualcosa di più e di diverso, in quanto mette in atto meccanismi di ri-appropriazione delle opere che permettono varie riflessioni ed allargano l’orizzonte mentale verso altre mete, di più largo respiro. Il nostro artista parla di un luogo immateriale come punto di approdo di tutto quanto è stato da lui “armato”. In effetti, l’immaterialità è data dalla non esistenza reale di quanto da lui è stato preparato in forma di artefatto, appunto. Se si va agli Uffizi di Firenze o all’Art Institute di Chicago non si trovano le formelle lignee di Rospigliosi giustapposte sul quadro di Caravaggio o van Gogh, tuttavia chi già conoscesse le opere rospigliosiane non potrebbe esimersi da tutta una serie di ragionamenti sui rapporti fra i due autori ed i loro elaborati d’arte. In pratica, è dopo Rospigliosi che nasce la problematizzazione del tutto, a partire anche dal banale valore di mercato sia dell’una che dell’altra opera. Si realizza, così, un disincantamento dell’opera d’arte riconosciuta come capolavoro e la si ri-contestualizza in un nuovo e diverso frame, che fa da cornice ad entrambi i manufatti artistici, mettendoli in stretta relazione per una loro diversa ed originale re-interpretazione. Il QR code inserito da Rospigliosi a mo’ di francobollo nella sua opera pittorica non ha la stessa funzione reperibile nei musei e nelle gallerie dove esso serve per rintracciare la singola opera mediante l’uso dell’audio-guida o di un altro strumento elettronico. Qui, invece, il codice consente di approcciare la nuova semantizzazione di un dipinto famoso o di un contesto quotidiano. Se il francobollo serve per solennizzare e legittimare un personaggio o un evento e la “pietra d’inciampo”, incastonata come gemma preziosa sul selciato antistante un’abitazione, ha lo scopo di ricordare il sacrificio di persone messe a morte per odio razziale, il piccolo riquadro di grafica elettronica escogitato da Rospigliosi svolge ben più di una funzione: permette un’utilizzazione diffusa a largo raggio, vista l’abitudine a ricorre al QR code in molteplici occasioni; collega l’artefatto rospigliosiano a quello di altri autori celebri; consente il travaso del dipinto appositamente realizzato in epoca contemporanea facendolo attraccare ed attaccare in un ambito diverso sia spazialmente che cronologicamente; accompagna il fruitore dell’opera-suggestione di avvio verso un appiglio costituito dal codice elettronico, tramite essenziale per poter visionare la nuova opera d’arte, come risultato combinatorio di due creazioni differenti. L’operazione di “completamento” è suggerita e messa a punto da Rospigliosi ma in effetti avviene principalmente (questo è l’intento dell’artista, nostro contemporaneo) grazie al pieno coinvolgimento di chi come destinatario finale si appropria del meccanismo traspositivo e ne usufruisce sino in fondo. Fra l’altro, Rospigliosi volutamente ed esplicitamente si apparenta in questo al pittore fiammingo Hubert van Eyck (1366?-1426), autore del celebre polittico dell’Adorazione dell’Agnello Mistico, che si trova nella cattedrale di Gand, in Belgio, e che fu completato dal fratello Jan van Eick (1390?-1441). Orbene, il suddetto apparentamento, palesato anche dal trattino di congiunzione fra Virgilio Rospigliosi e Hubert van Eyck, si può considerare corretto e giustificato se si ritiene che l’inizio del procedimento abbia luogo muovendo da un lavoro specifico di un dato autore, che poi viene portato a compimento da chi gli succede nella produzione. In altri termini, Rospigliosi si può legittimamente identificare con Hubert se si dà per scontato che il tutto cominci da lui. Al contrario, se si ipotizza che il continuatore sia in realtà colui che ha l’intuizione di qualcosa di diverso, anche se connesso all’opera iniziata in precedenza, allora sarebbe preferibile l’immedesimazione di Rospigliosi con Jan, anche per ragioni cronologiche, poiché, per esempio, Rospigliosi è un postero rispetto a Caravaggio e van Gogh e non certo viceversa. Orbene, questa doppia valenza di ognuna delle due identificazioni accresce ancora più la rilevanza e la semantica del procedimento inventato e realizzato da Rospigliosi. C’è, invero, un altro elemento che merita di essere vagliato. Si tratta del rapporto fra opera pittorica ed opera fotografica. Entrambe sono presenti nella proposta estetica di Rospigliosi, ma un conto è il dipinto in quanto tale ed un altro conto è la sua riproduzione fotografica. Le tecnologie odierne, poi, hanno raggiunto un livello di perfezionamento nemmeno immaginabile sino a qualche anno fa, per cui riesce assai difficile distinguere un originale da una riproduzione. Per di più, occorre tenere conto della possibilità di modificare ogni dettaglio di una foto ricorrendo al programma computeristico denominato Photoshop. Ciò detto è evidente che ci si trova, in linea di massima, dinanzi a due composizioni entrambe pittoriche e quindi valide di per sé sul piano estetico. Nel caso di Rospigliosi la sua opera di partenza è sempre un dipinto e mai una foto. Quest’ultima si ha nel caso della riproduzione di un dipinto noto o nella collocazione del lavoro iniziale rospigliosiano in un quadro d’insieme diverso da quello in cui l’opera di avvio è stata realizzata. A mio parere, questa continua interlocuzione tra arte pittorica ed arte fotografica rappresenta un valore aggiunto di quanto preparato ed offerto dal Nostro alle masse. Su tale lemma forse conviene avanzare qualche dubbio critico, giacché le masse sono un insieme indistinto, mentre la fruizione di un’opera d’arte avviene principalmente a livello di singola persona, anche se poi il discorso si allarga facilmente ad una partecipazione più ampia. Lo spostamento dall’una all’altra opera ha luogo prioritariamente a livello spaziale, ma anche la temporalità fa parte della fenomenologia in atto. I tempi esistenziali di Rospigliosi e di Caravaggio e van Gogh non sono i medesimi e neppure quelli dello stesso Rospigliosi nella misura in cui dipinge un’opera in un dato momento e poi la posiziona all’interno di una cornice di vita quotidiana successiva. Dunque, le operazioni sono congiuntamente spazio-temporali (e, volendo, anche corporali). Soprattutto, però, è da enfatizzare l’uso dei tempi verbali che sottolineano la trasformazione in atto o già avvenuta: il dipinto “Era” di Caravaggio o van Gogh, oppure “Non è più di”. Detto altrimenti, Rospigliosi compie una sorta di miracolo: non solo fa “parlare” la sua opera o quella di un famoso artista del passato, ma riesce pure a creare una terza opera “immateriale” che è data dalla connessione fra due lavori differenti. Ed a questo punto la distinzione fra museo o galleria d’arte e mercato tende a cadere, per cui è avvenuto esattamente quello che Rospigliosi auspicava, quod erat in votis.
Valerio Dehò (Looking for Monna Lisa) 2019
Silvana Editoriale. (Testo completo solo su catalogo)
Angelo Tonelli (L’Atomideogenesi di Virgilio Rospigliosi) 2019
Virgilio unisce nella sua opera il virtuosismo tecnico con la capacità di delirio icastico del più raffinato surrealismo, originando opere che conquistano immediatamente lo sguardo dell’osservatore, e lo calamitano in un metamondo onirico in cui spesso affiorano citazioni Fiamminghe, Rinascimentali e altro. La maestria, e la densità di poetica in tali realizzazioni è già di per sé sufficiente a garantirgli rilievo nel panorama artistico nazionale e non.
Ma non è il caso di adagiarsi nella pura contemplazione e degustazione estetica e intellettuale dei suoi lavori, che per di più segretano e insieme esprimono non pochi tratti che potremmo definire esoterici. Non si può infatti dimenticare che tra i suoi lari e penati il Nostro annovera Duchamp, con quella sua tensione a portare il gesto artistico al di fuori della sua traccia consueta, e a intromettere in esso una oggettualità allotria che lo pone tra lo sguardo dell’artista, e la consistenza apparentemente esterna delle cose, in una liminalità che è il luogo stesso del fare creativo di Virgilio. Proprio dalla collisione e collusione tra il classico e la rivoluzione duchampiana sussiste, e dalla metà degli anni duemila a oggi si accentua, l’originalità del gesto di Virgilio, con l’approdo alla pratica dell’atomideogenesi, che attraverso l’annullamento dell’opera, ricondotta al suo “algoritmo cibernetico” di pure astrazioni matematiche mediante l’incastonamento in essa stessa di una memory card che ne contiene, appunto, l’algebra astratta, la riconduce alla sua dimensione di “idea” nel senso pitagorico del termine. Si può bene intendere in questo modo la sua critica dell’astrattismo, quando sostiene che il termine astrattismo attraverso il quale gli storici hanno nominato la nota corrente artistica è “sbagliato”, “perché nel momento in cui tocchiamo o anche soltanto guardiamo un oggetto, quell’oggetto è figurativo e non astratto. Un colore, una linea, una frase, anche se svincolate da forme di rappresentazione convenzionali, saranno sempre forme riconducibili a una riconoscibiltà umana.e quindi saranno espressioni non astratte ma figurative”.
Atomideogenesi rivendica la proprietà del termine “astratto” in quanto l’opera, creata e manifestata, viene annullata nella sua idea, che non è umana, ma appunto, astratta: L’opera viene realizzata, nella sua perfezione, doxastica, e poi fotografata. La memory card, “che conserva l’immagine smaterializzata dal processo informatico attivatosi allo scatto della foto, trasformata e rinominata in codice binario, in numeri, i quali essendo un’entità astratta sono intangibili, come il pensiero”, viene incastonata nell’opera, e sta a essa come in Platone le Idee stanno alle cose. Annientandola, l’Artista salva i fenomeni. E l’Arte. Così, aggiungiamo noi, il Vuoto sta alla forma nel Sutra del Cuore buddista, e l’acqua divina sta alle cose nell’alchimia di Zosimo di Panopoli? Forse, ma con una differenza – e qui rilanciamo una piccola provocazione all’Artista: che il numero e la memory card hanno una materialità e sono espressione, seppure astratta, mentre il Cuore che non trema della Aletheia parmenidea, il Vuoto buddista e l’acqua divina dimorano in quella dimensione che Giorgio Colli chiamava “immediatezza” e che è al di là di mondo e mente.
Luca Valentini (Virgilio Rospigliosi e l’arte dell’avanguardia pitagorica) 2019
Approcciarsi ad un’opera d’arte, in piena modernità e società dei consumi, è procedimento al quanto complicato, sia per la percezione distorta che l’astante ha ormai del concetto del Bello – ormai decaduta è l’idea di forma interna e spirituale dei Greci e di un Fidia – sia perché spesso l’artista concepisce non più la propria espressività in relazione ad un’ideale cosmico-spirituale di riferimento, ma quale esplicitazione del proprio inconscio, spesso caratterizzata da non poco peregrinazioni istintuali ed induzioni dell’ambiente condizionante. Tale essendo la premessa, è possibile accostarsi alle creazioni di Virgilio Rospigliosi in maniera assolutamente innovativa e profondamente originale. Non si presenta un arcaico paradigma platonico da riconoscere né un animo inquieto, quello dell’artista, da riconoscere, da interpretare, con cui psicanaliticamente interagire: il centro non è designato né l’opera né nell’artista. L’Omphalos, sorprendentemente, diviene l’astante, colui che osserva e che dovrebbe essere, normalmente, il recettore passivo della rappresentazione. In tal contesto, invece, l’astante diviene attore, il recettore diviene protagonista principale, l’opera e l’artista da componenti di primo rilievo divengono veri e propri strumenti pitagorici di autocoscienza di chi la singola opera ammira. L’irregolarità voluta di certe figure, il voluto controsenso o il voluto non senso di un simbolo, anche spesso nel suo richiamo tipicamente arcaico, assumono una funzione di pitagorica catarsi per l’astante, che deve mobilitare la presenza a se stesso, per non ricevere un dato messaggio, per comprendere quanto l’opera d’arte assuma un salto della coscienza propria, un mezzo che possa servire a destrutturarla ed a ridestarla. Tale tecnica, secondo il nostro punto di vista, rappresenta un nuovo livello d’avanguardia artistica, in cui i ruoli sono appunto invertiti, come è invertito è il senso dei codici numerici inseriti nelle sim–card che il Rospigliosi inserisce nei suoi lavori: non espressioni algebriche poste per richiamare una data idea, ma poste in una data localizzazione dell’opera, affinchè la coscienza di chi osserva abbia un sussulto e si possa interrogare. Ed non conta neanche tanto il tema dell’interrogazione verso se stessi, quanto, primariamente il movimento dell’anima, che abbandona la staticità psicologica recettiva, lunare e passiva, per ridivenire produttrice di un’istanza sottile propria, indipendente ed volitivamente attiva. Similmente alle celebri “imagines agentes”, che è possibile ritrovare nell’Ars Reminiscendi del mago rinascimentale Giambattista Della Porta, ogni simbolo arcaico, ogni riferimento numerico, ogni capovolgimento cercato della razionalità artistica, rappresenta un’induzione strumentale all’interrogazione interiore. La partecipazione, pertanto, alle mostre di Virgilio Rospigliosi può caratterizzarsi per un’innovativa visuale che ivi si acquisisce, per una rinnovata centralità dell’osservatore sull’opera d’arte ed il suo Artifex e quindi più che realizzarsi un procedimento di visione esterno e centrifuga, si concretizza una dinamica centripeta di ascolto della propria anima cosciente, che tramite sussulti simultanei e ripetuti, cioè opera dopo opera, si interroga. Come con la Natura naturante ed con le dinamiche magiche del pensiero, l’agente di permanenza e trasformazione, cioè il quid d’essenzialità riesce ad interpretarlo il movimento stesso e non il fine fittizio che assume, che necessariamente muta, dall’artista all’astante, da astante ad astante, la differenziazione del demone personale che si palesa, che nel movimento e nel pensiero che si interroga, ritrova pitagoricamente l’unità cosmica della rappresentazione. L’incontro con l’arte di Virgilio Rospigliosi è, in sintesi, un tentativo di approcciarsi a se stessi e di scardinare le certezze del fenomenico per sondare l’invisibile del noumenico kantiano.
Luca Valentini (Idea e Materia: l’ “atomideogenesi” pitagorica di Virgilio Rospigliosi) 2018
Ci sono nelle espressioni figurative e scultoree contemporanee rari esempi di un’Arte intesa in senso spiritualmente unitario e superiore, avendo essa, come tutte le espressioni d’esistenza che sono state travolte dall’evoluzione modernista, subito un processo di desacralizzazione e separazione, non più concepita come viatico simbolico verso la sublimazione delle proprie componenti animiche, ma come mera specializzazione di un’erudizione vuota, muta, senza archetipi a cui ispirarsi, ma dominata dal sentimentalismo, dal perbenismo, dall’irrazionalismo vitalista, se non, come gli ultimi decenni dimostrano, dalla mania per l’originale e l’esigenza dell’economico, quindi del commerciale. Per decifrare tale decadenza faremo nostra la definizione di uno storico dell’arte tedesco, Hans Sedlmayr, il quale ha definito nella sua critica l’involuzione artistica una “Perdita del Centro” (H. Sedlmayr, Perdita del Centro, Edizioni Borla, Città di Castello, 1983). Il carattere simbolico e contemplativo si è completamente perduto, per lasciare il campo a produzioni che nulla afferiscono alla sfera dell’alta creatività umana, che è immaginazione e rimodulazione divina e spirituale, ma che hanno assunto funzioni puramente decorative ed ornamentali. La perdita del centro è, appunto, la perdita di un riferimento superiore, la perdita di un archetipo che più non si è in grado di riconoscere, non per una maggiore complessità di comprensione, ma per la progressiva incapacità che l’uomo moderno ha maturato nel rapportarsi con qualsiasi dimensione del Sacro, quindi anche con l’Arte, che del Sacro è la Teosofia, cioè la conoscenza interiore ed effettiva. Lo storico tedesco sentenzia con brevità ed efficacia una verità tremenda:”l’uomo ha perduto il suo centro…anche l’arte si allontana quindi dal centro” (p. 195). E’ esaminata per prima la tendenza alla separazione delle sfere pure, cioè la devianza rappresentata dal purismo che disconosce la propria esistenza come un quid organico ed armonico rispetto non solo ad altri generi di espressioni artistiche, ma anche rispetto alle scienze, alla politica, alla religione: una lacerazione che investe i sensi dello spirito umano e l’autore, a titolo d’esempio, fa riferimento al “puro vedere” di Cézanne.
Da tale catabasi, l’opera, che noi definiamo “pitagorica”, di Virgilio Rospigliosi si differenzia, si distacca, diremmo quasi si salva. Nelle opere del pittore ligure vi troviamo un senso, una trama che coinvolge e che si occulta ai visitatori delle sue mostre, una partecipazione del maestro d’arte e dell’utente delle sue creazioni che non si configura come mero estetismo, ma come attivazione di un piano sottile comune. Tale sfera universale del sentire, oltre che per vedere, è espresso in un codice numero – da qui la sua valenza pitagorica – , presente in una localizzazione segreta in ogni opera, a cui tutto un simbolismo platonico ed ermetico accosta empaticamente, quasi attirando il visitatore magneticamente. E il mondo della pittura ritrova il senso della bellezza e della forma, il setaccio sacro della metafisica, che in Occidente spesso è stata connessa con la sacra numerazione del Maestro di Crotone, per ridestare la sensazione che forse nell’universo ci sia una trama differenziata ma unica, che unisce le anime che sappiano risitonizzarsi su di una certa frequenza. La modulazione armonica, che Virgilio riproduce, conduce se stesso e chi gode eroticamente delle sue opere pittoriche magistrali verso la visione e l’ascolto di una storia antica, espressa tramite il numero ed il simbolo, cioè un atto d’amore per l’eterno presente e di sfida contro la mediocrità moderna.
Umberto Zanarelli (Dalla materia… all’indicibile - “Guido D’Arezzo - Virgilio Rospigliosi marchant sur le canone de Bach”) 2018
La Musica fino ad oggi è stata considerata pura astrazione in quanto non si presenta fisicamente come la scultura e la pittura. L’essere umano, per sua natura, ha l’esigenza dell’oggettivazione, ossia rendere tangibili le proprie idee per poterle avidamente osservare e custodire. Come reagirebbe, quindi, l’uomo se l’arte fosse concepita solo come pensiero? Il sasso è già stato lanciato, ma ad egli occorrerà tempo affinché riesca a togliere dal suo volto il velo di Maya per scorgere la porta che gli consentirà di entrare in una nuova dimensione. Parlare di innovazione potrebbe suscitare curiosità ed al contempo intimidire, ma l’uomo incline alla conoscenza, si lascerà sicuramente trascinare dal vortice del nuovo. Tornando alla musica, possiamo sfatare l’idea che essa sia astrazione poiché il monaco Guido D’Arezzo riuscì a materializzare i suoni attraverso l’invenzione delle note ed il tetragramma - tecnica questa che ci consentì di poter vedere raffigurata la musica. Allo stesso modo, ma seguendo un percorso inverso, l’artista Virgilio Rospigliosi afferma che un giorno l’arte sarà espressa solamente con il pensiero, come si legge in un’intervista rilasciata ad Umberto Eco nel 2013 e con questa affermazione egli ambisce, dopo anni di ricerca e sperimentazioni ad instradarci nella sua filosofia: “L’opera d’arte non è ciò che stai guardando. Prendiamo per esempio un dipinto. L’opera d’arte non è l’oggetto in sé ma è l’immagine sedimentata nella memoria analoga al dipinto fotografato ed inserito dentro la memory card. Immagine smaterializzata dal processo informatico attivatosi allo scatto della foto. Trasformata/rinominata in codice binario. Intangibile come il pensiero. Questa modalità di annullamento determina la morte della rappresentazione artistica in tutte le sue forme fisiche”. In altre parole secondo il pensiero di Rospigliosi l’oggetto diviene vettore assumendo il ruolo di mediatore tra l’osservatore e la dimensione in cui si trova il pensiero allo stato puro – l’Iperuranio sosterrebbe Platone. Così, l’oggetto-vettore riconosciuto e codificato nella nostra memoria, rassicura l’osservatore catturando la sua attenzione, ma egli, osservando l’oggetto, crede di osservare l’opera d’arte quando quest’ultima, invece, attraverso il processo matematico è già stata trasformata in puro pensiero in quanto contenuta nella memory card. Guido D’Arezzo e Rospigliosi quindi seguono un percorso analogo ma con direzioni opposte: il primo inventa un sistema di scrittura musicale sul quale si baseranno tutti i compositori a venire consentendo loro di materializzare le proprie idee, Rospigliosi, partendo invece dalla materia/oggetto ritorna all’idea pura/astrazione attraverso l’annullamento dell’opera, percorso che egli compie a ritroso e definito con un neologismo coniato dall’artista stesso: Atomideogenesi che univocamente indica il ricondurre la materia (atomo/oggetto/opera d’arte) all’idea pura (ideogenesi). Questo rituale mi ricorda molto la direzionalità di un canone bachiano, quello detto del granchio anche se in realtà la definizione esatta è canone cancrizzante o canone inverso la cui caratteristica è quella di incrociare, grazie ad una particolare e complessa tecnica contrappuntistica, due voci costituenti un medesimo tema procedenti in senso opposto. D’Arezzo a sua insaputa era riuscito per necessità didattiche a materializzare il suono; Rospigliosi invece effettua il processo inverso attraverso l’atomideogenesi creando un point-break, un punto di rottura estetico-filosofico sul quale l’arte si era sempre basata dagli albori fino ai tempi odierni – a Rospigliosi occorreva un reset, un nuovo inizio la cui difficoltà maggiore, però, era quella di riuscire a dimostrare l’annullamento oggettivo dell’opera e renderla veicolo per poter risalire al suo nucleo: il pensiero, la genesi, la luce. Per rafforzare il concetto di annullamento dell’opera d’arte divenuta oggetto, si innesca il paradosso Rospigliosi: “L’immagine dell’oggetto fotografato viene inserita nella memory card e solo successivamente unita all’oggetto concludendo il lavoro. Sarebbe impossibile fotografare l’oggetto con la memory card incastonata nel supporto comprensiva di immagine. Quindi l’oggetto fotografato è privo di memory card. Di conseguenza privo di contenuto. Dunque dov’è l’opera? Fisicamente non c’è mai stata. Il dipinto che si sta osservando è l’oggetto” (e non l’opera d’arte!). Rospigliosi, con lo stesso slancio emotivo con il quale Einstein donò al mondo la sua teoria sulla relatività, per anni rimasta tale a causa di scarsità di mezzi, ma in parte quest’oggi messa in pratica, si fa auto-promotore del suo canone inverso che già lo si può considerare “arte astratta”. E qui occorre soffermarci e puntualizzare che per “astratto”, nell’impiego corretto dell’accezione, s’intende ciò che non è visibile, reale e tangibile, a differenza di ciò che la convenzione con tale vocabolo ha voluto esprimere fino ad oggi. Se Einstein non ha avuto modo di vedere applicata la sua teoria, Rospigliosi è a un passo dalla comprensione altrui, ma occorrerà tempo affinché il suo modus operandi rientri nella cosiddetta normalità, supponendo di stabilire che cosa sia la norma, visto che la sua definizione muta a seconda del contesto storico in cui la si collochi. Trovo che Rospigliosi abbia compiuto un gesto d’umiltà nei confronti dell’arte distaccandosi dall’ego umano tendente per sua natura, come sopra già anticipato, all’oggettivazione delle proprie idee. Rospigliosi riportando la materia all’idea, la restituisce al luogo nel quale essa risiede, in quella zona al di là del cielo, in quel mondo oltre la volta celeste, raggiungibile solo dall’intelletto e non tangibile dagli enti terreni e corruttibili. Mi piacerebbe concludere con una nota citazione di Galileo Galilei: “Misurate ciò che è misurabile e rendete misurabile ciò che non lo è” - prezioso suggerimento che invita a spingersi oltre la coltre della conoscenza affinché si possano esplorare nuovi territori nel tentativo di raggiungere l’indicibile. Credo che questa nuova forma di pensiero con il trascorrere del tempo rimetterà in discussione tutte le verità che ci circondano. Basti pensare quando un giorno si entrerà in un museo completamente de-oggettivato e l’artista interagirà con il proprio fruitore comunicando la sua opera d’arte esclusivamente con il pensiero.
Umberto Eco Virgilio Rospigliosi "L' istinto ragionato". Intervista del 31-10-2013
La società contemporanea è quotidianamente travolta dallo stress da prestazione. I tempi di lavoro si accelerano, rischiando di indebolire o distruggere le idee prima ancora che queste possano prendere forma. Mettiamoci dentro tutte le informazioni, che attraverso i Media ormai viaggiano alla velocità della luce. E il gioco è fatto. L'uomo si ritrova smarrito, innervosito e privato, suo malgrado, della pazienza necessaria all'atto creativo. Quindi mi viene da pensare che se l'arte è sempre espressione della società che la produce, allora siamo proprio messi male. Per fortuna di tanto in tanto si incontrano artisti alquanto singolari, che rappresentano il tempo in cui vivono, senza dimenticare la storia dalla quale provengono. Come sospesi tra passato e futuro. Uno di questi è Virgilio Rospigliosi. Durante l'estate scorsa, ho avuto il piacere di approfondire il suo interessante percorso artistico. Quindi mi sono proposto per qualche domanda specifica e diretta.
U.E - E' evidente il suo interesse nei confronti dell'arte classica. Se non fosse per i messaggi estremamente attuali definirei la sua opera anacronistica. In realtà di inattuale nel suo lavoro non c è proprio nulla. Opere Figurative e opere astratte che sfiorano il minimalismo. Video visionari sul potere dei media. Fotografie digitali sulla codificazione dell'uomo da parte del consumismo. Mantenendo sempre coerenza, forza di espressione e di contenuti.
V.R - Credo che in un'opera d'arte la cosa più importante sia il messaggio. Indipendentemente dalla modalità espressiva utilizzata. Purtroppo esiste una catalogazione degli artisti da parte del mercato e da parte del collezionismo. I quali hanno imposto determinate regole. C'è una divisione tra artisti figurativi, artisti informali, videoartisti, fotografi, performer, ecc. E questa divisione/catalogazione vale anche per i fruitori. Per esempio, ci sono coloro che acquistano opere astratte, ma non comprerebbero mai un'opera figurativa. Oppure il contrario. Lo stesso vale per la critica. Tutto ciò è assurdo. L'artista non può essere codificato in uno stile. L'artista ha il dovere di esprimere "il messaggio" indipendentemente dalla modalità espressiva che sceglie di usare. Quando mi viene chiesto di dare qualche indicazione, riguardo al fatto che il mio modo di fare arte è piuttosto vario, rimango un pò titubante. Nel mio sito ufficiale ci sono una serie di categorie, tutte nominate in base al Modus Operandi. Purtroppo codificare il proprio lavoro è tristemente necessario. Il mercato dell'arte ha deciso così. Io penso che l'unica categoria o genere che abbia un senso logico per tutta l'arte dalla preistoria fino ad oggi sia: "figurativo concettuale". Primo, perchè tutto è figurativo. Secondo, perchè tutto è concettuale. Prendiamo come esempio l'astrattismo. L'ormai storico Mark Rothko, classificato come artista Espressionista Astratto, non è astratto. Perchè nelle sue opere si riconoscono colori tangibili e forme in qualche modo riconducibili alla geometria. Quindi concretezza e non astrazione. L'uomo non può descrivere ciò che non conosce. Quindi "l'astratto" non esiste. L'uomo è inglobato in un linguaggio unitario e direttamente proporzionale alle sue conoscenze terrene, legate alla biologia. Ciò che viene rappresentato dagli artisti codificati come "astrattisti" (me compreso), in realtà, è "figurativo". Lo stesso vale per qualsiasi altra catalogazione di genere. L'essere umano non può rappresentare materialmente qualcosa che non fa parte delle sue conoscenze o della sua natura. L'artista . L'uomo. Nonostante cerchi in ogni modo di rendere astratta una forma, sarà sempre una forma impregnata di fattori legati ad una riconoscibilità concreta. Umana. Viviamo sulla terra e siamo costituiti da processi biologici tangibili e limitati. Solo il pensiero può essere astratto.
U.E - Quale importanza ha avuto lo studio dei suoi predecessori? Mi riferisco ai grandi artisti del passato, che a quanto pare lei conosce molto bene.
V.R - Fondamentale. Non ho frequentato accademie. Sono autodidatta. Ho detto in più di un'occasione che la mia formazione artistica deve molto all'osservazione diretta e attenta delle opere esposte nei musei. Fin da ragazzino, grazie alla mia famiglia, gironzolavo per la Galleria degli Uffizi e Musei Vaticani. Ciò mi ha consentito di entrare in contatto visivo con i capolavori che tutti conosciamo. Realizzavo disegni e copie dal vero per addomesticare intuito e sensibilità a forme e colori. Dopo aver appreso la tecnica decisi di iniziare il percorso personale che mi ha portato fino ad oggi.
U.E - In molte sue opere non passano inosservati messaggi, citazioni e riferimenti provenienti dal mondo dei mass media e della pubblicità. E durante il nostro colloquio mi ha citato più volte il noto filosofo canadese Marshall McLuhan. Perchè questo marcato interesse nei confronti della Massmediologia?
V.R - Noi siamo ciò che mangiamo. E l'artista ha il dovere di comunicare all'umanità ciò che essa spesso non vede, o non vuole vedere. McLuhan è stato profetico. Ha scritto cose che ancora oggi sono prepotentemente attuali. Aveva capito che ci sarebbe stato un giorno in cui gli uomini avrebbero interagito tra di loro senza spostarsi di un centimetro. Aveva capito che la tecnologia sarebbe diventata una seconda pelle per l'uomo. In molte mie opere sottolineo tutto ciò che la società contemporanea distribuisce, senza che nemmeno ce ne accorgiamo. La pubblicità, la televisione, il web, portano nelle nostre case informazioni che si insediano nei nostri neuroni. Codificando e paralizzando la nostra mente. Se non impariamo a gestire queste informazioni, specialmente quelle negative, rischiamo di diventare eunuchi lobotomizzati, incapaci di intendere e di volere. E griffati dalla testa ai piedi. McLuhan è stato un precursore e un punto di riferimento molto importante per me. Una pietra miliare della sociologia mondiale. Un Genio.
U.E - Durante la nostra telefonata lei si è definito "scienziato". Li per li mi è venuto da ridere. Trovo però che sia una giusta definizione. Effettivamente l'animo che spinse illustri scienziati a fare scoperte sensazionali, non poteva che essere animato da uno spirito creativo. Adiacente alla sensibilità che dovrebbe avere un artista.
V.R - "L'arte è la scienza resa chiara" diceva Jean Cocteau. Io dico: "Lo scienziato senza creatività non ha futuro. L'artista senza la scienza non avrà un futuro". L'input che permise ad Einstein di scrivere la "Teoria sulla relatività", equivale all'input che ebbe Michelangelo nella geniale idea della "Genesi" sulla Cappella Sistina. Credo che la scoperta della penicillina sia arte. Lo stesso vale per l'invenzione del microchip. Alcuni esperimenti effettuati da geniali ricercatori, attraverso marchingegni sofisticati, sono opere d'arte. E potrebbero essere esposti in musei, gallerie e fiere internazionali. Sarebbero sicuramente più interessanti di moltissime opere esposte, sia in bellezza che in ricchezza di contenuti.
U.E - Nell'arte è più importante l'istinto o la ragione?
V.R - Direi un istinto molto ragionato. Un bel palazzo senza fondamenta crolla. E' inevitabile. Come dicevano i Neoplatonici, ci vuole il giusto equilibrio. Personalmente se dovessi tradurre in percentuale il concetto direi 70% ragione 30% istinto. Non credo che l'idea debba essere rappresentata appena si presenta nella nostra mente. Credo che l'idea abbia bisogno di essere filtrata dalla ragione. Ovviamente esistono le intuizioni folgoranti. Ma bisogna essere in grado di afferrarle e soprattutto gestirle, perché possano essere rappresentate al meglio. E questo è possibile soltanto attraverso la razionalità. L'arte contemporanea non è ancora riuscita a scrollarsi di dosso il romanticismo. Lo dimostra il fatto che spesso nell'immaginario collettivo la figura dell'artista viene associata al personaggio un pò folle, che in preda ad una crisi mistica e delirante crea il suo capolavoro. Visioni inventate dalla letteratura dell'800. Stereotipi che potevano andare bene in quell'epoca, ma che oggi rischiano di ostruire la mente e non portare idee nuove. I capolavori non nascono solo ed esclusivamente dal fuoco della passione. I Neoplatonici la definivano "Forza bruta". Nascono da un'alchimia di fattori, primo tra tutti, un pensiero lucido, basato su una progettualità solida e definita. Certo, la componente passionale è importante, ma solo in piccole dosi. La troppa passione nell'arte annebbia la vista e l'intelletto. Oscar Wilde diceva: "Il cuore di un’artista non sta nel petto, ma nella testa".
U.E - L'arte è verità?
V.R - La verità è un'illusione. Quindi l'arte è Illusionismo. Spesso è anche mistificazione. Viviamo un'era in cui chiunque si può improvvisare artista. Questo grazie alle tecnologie, come il digitale. Nuove forme di comunicazione, che si pongono come media risolutori nel tentativo di facilitare, apparentemente, l'approccio all'arte. E questo è un danno che crea confusione e depistaggio, a discapito degli artisti veri, coloro che hanno realmente qualcosa da dire. Sono favorevole alle tecnologie nell'arte. Io stesso utilizzo quotidianamente apparecchiature sofisticate per determinate opere, come video, fotografie. Ma sono anche estremamente convinto che per arrivare a "B" bisogna partire da "A". Non si può arrivare a "B" per miracolo. Arnold Shoenberg ha destrutturato i canoni fondamentali della musica classica, aprendo le porte alla moderna. Ma era anche a conoscenza delle modalità con cui si costruiva una sinfonia. Prima si impara a camminare e dopo si può correre. Penso di essere stato chiaro.
U.E - "Avere la lampadina e andare a letto con la candela". "Libertè. Egalitè. Publicitè I love Dio r "."Il pesce pontificio e gli angeli vendicatori". "Annunciazione culturale". "Natura mutata". "La cultura è un reato". I titoli una componente molto importante nelle sue opere. Aspetto narrativo e forma, sono in perfetta sinergia. I messaggi sono profondi e ironici. Mai banali. Non teme che la ricercatezza del titolo possa prendere il sopravvento sull'opera?
V.R - In alcuni casi i titoli devono assolutamente prendere il sopravvento. Il titolo per me è molto importante. Spesso parto da quello. E a volte il resto su quello. Nel senso che il titolo diventa l'opera stessa. Una frase, oppure una parola, si proietta direttamente nel cervello senza mezzi termini. Come nella pubblicità. Porto sempre con me qualcosa su cui annotare frasi e parole che poi si trasformano in titoli. E questo ancora prima di avere realizzato il dipinto, la fotografia o il video. Naturalmente ciò che scrivo deve avere una relazione con la forma che lo accompagna e viceversa. Anche se creare volontariamente un depistaggio narrativo, di tanto in tanto, può infondere ancora più forza all'opera.
U.E - Nel corso della storia ci sono stati molti artisti che utilizzarono uno pseudonimo. Lei si firma Virgilio Rospigliosi. In realtà non è il suo vero nome.
V.R - Il nome è soltanto una parola inventata dagli uomini. Un segno di riconoscimento. Per me è un colore. Diciamo che la scelta dello pseudonimo ha soltanto una funzione estetica. Mi piaceva il suono. Ho aggiunto da qualche mese il cognome "Rospigliosi". Per molti anni ho firmato le mie opere soltanto come "Virgilio". La scelta dello pseudonimo proviene dall'unione del nome e il cognome di due personaggi della storia italiana: "Publio Virgilio Marone", "Giulio Rospigliosi - Papa Clemente IX".
U.E - Ho l'impressione che l'arte contemporanea si concentri più sulla quantità piuttosto che sulla qualità. Basti pensare alle gallerie d'arte che nascono come funghi, oppure alle manifestazioni Fieristiche, che tra non molto inizieranno a vendere anche il pesce. Ci sarà un futuro per le nuove generazioni di artisti?
V. R - Il futuro dell'arte è nei "Pixel". E' già stato realizzato di tutto. Il Novecento ha bruciato le tappe, e ha messo in difficoltà l'arte contemporanea. Siamo ancora tutti figli di coloro che hanno aperto le porte al moderno. E mi riferisco a grandi maestri come Marcel Duchamp, tanto per citarne uno. La maggior parte dell'arte odierna non sa più quali pesci prendere. Artisti che tendono alla provocazione e allo scoop (spesso banale) per attirare l'attenzione. Ma ormai è minestra riscaldata. Basta entrare in un Social network come Facebook, oppure su web, e troviamo fotomontaggi di idee a volte paradossalmente geniali. Realizzate da sconosciuti senza ambizioni artistiche, e che senza rendersene conto fanno le scarpe a moltissimi artisti professionisti, quotati e famosi. Forse l'arte contemporanea è alla frutta. Forse la vera novità consiste in un recupero intelligente e filtrato del passato, attraverso la filosofia e la tecnologia di oggi. Probabilmente in futuro i mezzi informatici saranno i sostituti "definitivi" di tele e pennelli. Ci sarà un tempo in cui l'arte sarà puro pensiero. E non ci sarà neppure bisogno di materializzarlo. La comunicazione avverrà telepaticamente o in qualche altro modo a noi ignoto. Credo però che bisognerà aspettare ancora un pò. Il digitale è diventato una importante modalità espressiva. E sono convinto che prima o poi si affermerà totalmente. Ma per ora non è ancora in grado di sostituire la vecchia Pittura. Diciamo che, per il momento, Pittura e Digitale stanno facendo un percorso parallelo. Sono d'accordo sull'utilizzo delle tecnologie a favore dell'arte. Basta che alla base ci sia cultura e soprattutto idee importanti. Perchè senza quelle, "l'artista" non funziona.
Alessandro Riva (Le strane annunciazioni di Virgilio Rospigliosi) 2013
Virgilio Rospigliosi, artista concettuale sui generis (ma lui preferisce chiamarsi un “illusionista”), fuori dai giri classici del contemporaneo più à la page, amato però (non a caso) da Philippe Daverio, col quale ha collaborato in diverse occasioni, oltre che da intellettuali e critici fuori dagli schemi come il compianto Giorgio Soavi e persino l’imprendibile Umberto Eco.
Ma cosa sono queste “Annunciazioni”? Delle semplici provocazioni? Dei giochi allegorici, perfettamente in linea con il linguaggio del concettuale ironico, del quale Rospigliosi potrebbe a buon diritto definirsi uno dei tanti figli e figliocci più o meno illegittimi? “Ho realizzato più d’una Annunciazione”, spiega l’artista. “E in tutte il messaggio è lo stesso. Anche le più estreme rappresentazioni artistiche e i più estremi tentativi che ci propone l’arte contemporanea sono direttamente riconducibili a operazioni concettuali partite, e spesso rimaste ferme, a Duchamp. La frattura, il cambiamento sul modo di pensare e di praticare l’arte si sono attivati a partire da lui. Io ho creato una conversione metaforica: al posto della genesi del Cristianesimo, ho raffigurato la genesi dell’arte contemporanea. L’icona del Cristianesimo che prega l’opera shock e rivoluzionaria, l’orinatoio; il paesaggio primitivo e desertico che li circonda accentua la relazione tra i soggetti principali. È una presa di coscienza della grandezza di un’opera che ha condizionato tutto il 900 fino ad oggi”. Eppure, l’opera, nella sua carica ironica, sembra voler mettere a nudo anche un’altra questione, un vero e proprio cancro dell’arte contemporanea: l’eterna santificazione e acclamazione dell’ultima ideuzza provocatoria, dello sberleffo fine a se stesso, diventato lo specchietto per le allodole di un sistema autoreferenziale e in perenne ricerca di “novità” anticonformiste e sempre più “scioccanti” con cui coprire il deserto – culturale e ideale – che caratterizza buona parte del lavoro degli artisti osannati dal sistema oggi. Sì”, conferma l’artista. “Il problema dell’arte di oggi è proprio quello di prendersi troppo sul serio. Oggi è più facile trovare l’arte nella pubblicità o sui media che nelle gallerie d’arte”.
Daniela Del Moro (Nella struttura della Visione) 2009
"….Virgilio opera un ulteriore e risolutivo passo avanti nella filosofia del suo pensiero dell'arte: le parole, i suoi "titoli" diventano sostanza delle immagini, del suo spazio visivo, per cui se l'immagine è in contrapposizione all'idea di materia, allora essa stessa deve diventare materia: rivoluzionaria strategia concettuale di superamento della dicotomia "sostanza-immagine", "parola-oggetto"…" (Testo completo solo su catalogo)
Alberto Agazzani (Altre contemplazioni) 2009
L.I.B.R.A 2010. (Testo completo solo su catalogo)
Alberto Agazzani (Contemplazioni) 2009
Christian Maretti 2009. (Testo completo solo su catalogo)
Philippe Daverio (In occasione del 57° Premio Michetti - Laboratorio Italia) 2007
Vallecchi 2006. (Testo completo solo su catalogo)
Philippe Daverio 13x17 Padiglione Italia. Biennale di Venezia 2007
Rizzoli 2007 (Testo completo solo su catalogo)
Giorgio Soavi (C'era un Ligure Olandese) 2004
Ogni volta che scendo da Montemarcello a Sarzana lo vado sempre a trovare. La prima volta che entrai nel suo studio era la metà di settembre del 2003. Lo ricordo come fosse ora. Non mi presentai nemmeno, entrai e basta. Rimasi colpito e attratto da un dipinto su fondo chiaro, appoggiato su un alto soppalco di ferro. Rappresentava un insetto alato, dipinto con perizia maniacale. Non avevo mai visto una cosa del genere. Gli domandai il prezzo e lui mi disse che quel dipinto non era in vendita. Allora mi presentai con la speranza che il mio vecchio nome avesse potuto lavorare un pochino. Purtroppo o per fortuna lui sapeva già chi fossi. Sorridendo disse che aveva letto qualcosa di mio e che gli era piaciuto, ma il dipinto non era in vendita. Iniziai a guardarmi intorno e mi resi conto che non c'era soltanto quell'opera. Mi trovavo in una camera delle meraviglie. Rappresentazioni al limite del paradosso. Animali stranianti e privi di una collocazione zoomorfa, ibridi assemblaggi biomeccanici, agglomerati di bottiglie di vetro dipinte come un olandese del 1600. Cassettoni di massello umidi e ammuffiti con sopra tovaglie sdrucite, ricamate e unte. Frutta legata con spago e ortaggi inchiodati al tavolo di legno, costretti ad assumere pose feticiste. Insetti immobili in recipienti colmi di formaldeide. Foglietti di carta stropicciati e minuziosamente appiccicati sopra altri fogli. Scritte a volte grandi e a volte piccolissime che indicano il percorso per la lettura dell'opera, e posizionate su elementi decontestualizzati. Alzai lo sguardo e vidi altri quadri, addirittura inchiodati al soffitto. E centinaia di studi, fotografie, disegni e brevi descrizioni per video e installazioni da realizzare. Sembrava di essere in un altro mondo. Ogni centimetro quadrato era occupato da una sua opera. Sopra una sedia di legno antico c'era un dipinto molto simile a quello che suscitò la mia attenzione all'inizio. Stesse dimensioni, stessi colori e stesso soggetto. Mi avvicinai per osservarlo meglio e rimasi senza parole. Era lo stesso dipinto. Speculare. Dipinto magistralmente. E' in vendita? Lui disse di sì. Non sapevo se ridere o che cosa. Gli chiesi il perché quel dipinto si e l'altro no, dato che nessun occhio avrebbe notato le differenze. Non mi rispose. Allora lasciai perdere la cosa e mi concentrai sull'acquisto chiedendo quanto mi sarebbe costato. Cinque euro. Pensavo mi prendesse in giro. Ripetei la domanda. E di nuovo, cinque euro. Non sapevo che cosa dire. Gli domandai se gli sarebbe piaciuto fare una bella mostra a Milano presentata da me. Avremmo fatto entrambi una bellissima figura. Lui, con tutto il rispetto, mi disse di no. Sosteneva che fare una bella mostra a Milano gli avrebbe portato un pò di denaro subito e basta. E a lui non interessava. Iniziai a ridere e tirai fuori i cinque euro dal portafogli. Prima di andarmene volevo sapere il perchè di quella cifra ridicola. E la sua risposta fu il movente di questa breve lettera e testimonianza. Disse che aveva intuito fin da subito la mia attrazione nei confronti di quell'opera, e che mi aveva notato spesso fermo a contemplarla davanti alla vetrata del suo studio. E questo gli bastava. Mi fece riporre il secondo dipinto sulla sedia di legno antico, e portai a casa quello che vidi la prima volta appoggiato sul soppalco alto di ferro. Ci rivedremo sicuramente. Grazie Virgilio.
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